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Anatomia dello stampato

Non è un vezzo chiedersi come è fatto un volume, un packaging o una shopper. Il più delle volte, è lo stampato stesso che ce lo dice: sono poche infatti le cose che non si possono dedurre direttamente. E questo ci torna utile quando dovremo farne uno simile o solo ci imbattiamo in una soluzione cui non avevamo pensato, o ancora ci aiuta a non commettere errori e a chiamare le cose con il nome corretto. Vestiamo insieme i panni di Sherlock Holmes per scoprire quanto uno stampato sa dirci di sé.

Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 94

Per quasi novant’anni è stato presentato come “uno dei grandi tesori” della Biblioteca dell’Università del Michigan: in realtà, il manoscritto di Galileo Galilei del 1610, in cui l’astronomo rivelava la presenza di quattro stelle in orbita attorno a Giove, e quindi la conferma che non tutti i corpi celesti ruotavano attorno alla Terra, è un clamoroso falso. L’osservazione di corpi orbitanti attorno a un altro corpo che non fosse la Terra era vera, il documento no. La scoperta dell’agosto scorso è dell’Indiana Jones dei falsi d’autore Nick Wilding, professore di Storia alla Georgia State University, che già nel 2012 aveva attestato la falsità di un’edizione del Sidereus Nuncius sempre di Galileo. A tradire il falsario allora era stato l’inchiostro, questa volta sembra sia stata la carta.
Questa è solo l’ultima delle tante affascinanti storie di ritrovamenti fortuiti, misteri e incredibili scoperte di manoscritti e stampati. A volte sono questioni per filologi e collezionisti, altre svolte cruciali per la nostra cultura. Due su tutti: il De Re Pubblica di Cicerone ritrovato nel 1819 da Angelo Mai in un manoscritto del VII secolo grattando via i Commenti ai Salmi di Sant’Agostino; e la celeberrima quanto falsissima Donazione di Costantino svelata da Lorenzo Valla nel 1440 e sulla quale per secoli la Chiesa ha basato il proprio potere temporale. Storie in bilico tra filologia, mistero e, come dicono quelli bravi, entipologia: l’affascinante disciplina che si occupa della classificazione dei prodotti stampati secondo le loro caratteristiche storiche, funzionali, tecniche ed estetiche. Ma non occorre andare in cerca del mitico secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia di cui favoleggia Umberto Eco ne Il nome della rosa: basta uno stampato qualsiasi per vestire i panni di Sherlock Holmes e scoprire quanto sa dirci di sé. Perché sapere come è fatto può essere molto utile.

I 5 sensi all’opera

A dire la verità da addetti ai lavori, più o meno consapevolmente, l’analisi di uno stampato la facciamo sempre quando ce lo rigiriamo tra le mani, lo sfioriamo e lo sfogliamo, ne guardiamo dall’alto il dorso e ne valutiamo stampa e confezione. Qualcuno lo apre e ne osserva controluce le pagine, qualcuno sfrega tra le dita la carta per indovinarne mano e grammatura, qualcuno addirittura lo annusa. Non è un vezzo chiedersi come è fatto un volume, un packaging o una shopper; il più delle volte, è lo stampato stesso che ce lo dice: sono poche infatti le cose che non si possono dedurre direttamente. E questo ci torna utile quando dovremo farne uno simile o solo ci imbattiamo in una soluzione cui non avevamo pensato, o ancora ci aiuta a non commettere errori e a chiamare le cose con il nome corretto. A volte è questione di materiali, di tecniche, o ancora di ordine delle lavorazioni: è la giusta sequenza di stampa, plastifica, vernice lucida, vernice opaca, per esempio, che dà vita alla nota texture tono su tono della doppia G del packaging di Gucci: a vederla così sembra facile da ottenere, ma in certi casi non lo è affatto. 
In tutto questo, sono i sensi i nostri migliori alleati: vista, tatto e, perché no, anche olfatto, perché alcuni inchiostri hanno quasi sempre un odore caratteristico, come certe vernici. Ma non bisogna fermarsi alla superficie: occorre anche una discreta curiosità perché lo stampato va analizzato, girato e rigirato, a volte smontato del tutto o strapazzato, perché spesso alcuni segreti si nascondono letteralmente tra le pieghe. Per esempio, in una confezione filo singer sul piatto rivestita in tela, per trovare il filo occorre riportarlo alla luce smontando il volume, così come in una brossuna Optabind va tolta la copertina per mettere a nudo il rivestimento del dorso. O ancora vale la pena di smontare una shopper per scoprire che, a parte la stampa, il più delle volte è “solo” un foglio cordonato, piegato e incollato.

Fare le cose con metodo

Indubbiamente il metodo entipologico con il suo approccio tassonomico e sistematico può certamente essere una linea guida. I manuali di grafica partono classificando gli stampati in base all’uso e alla funzione per poi scendere nel dettaglio e descrivere di ciascun tipo di stampato le sue parti e le sue caratteristiche. Quello che dovremmo fare noi è proprio sfruttare questo approccio e analizzare uno stampato in ciascuna sua parte, dalla più esterna ed evidente, alla più piccola e nascosta. Per un volantino, un flyer, un’etichetta, un invito o un biglietto da visita questo può essere semplice, molto meno per un volume cartonato imbottito cucito con cofanetto che è composto da molte più parti.
Ma come si fa? In pratica si tratta di mettersi nell’ottica di ricostruire il capitolato dello stampato proprio come se dovessimo essere noi a commissionarlo al nostro stampatore: tipo di stampato, parti, colori, tipo di stampa e di carta, nobilitazioni, confezione, e così via… Ma non basta, perché fatto l’elenco delle parti, capito come sono state stampate o nobilitate e quali materiali sono stati usati, dovremmo anche cercare di ricostruire quali lavorazioni sono state fatte e in che ordine, non perché saremo noi materialmente a farle, ma proprio perché ne dobbiamo valutare la fattibilità e gli effetti. Pensiamo alla sequenza di taglio di tre classiche legature dell’editoria libraria: un volume brossurato con alette, uno senza e un olandese. Nel primo caso prima si taglia il volume sul davanti, si incassa la copertina e si refilano testa e piede; nel secondo, incassata la copertina, si procede con il refilo sui tre lati; mentre con l’olandese prima si refila il volume sui tre lati e poi si incassa. E se ci fosse il taglio colore sulle pagine? Come è stato fatto e quando? Avere la consapevolezza delle fasi vuol dire anche avere evidenza di quante lavorazioni devono essere fatte, quali in linea e quali fuori, e, visto che ogni lavorazione è un costo, significa anche avere consapevolezza dei costi e saper valutare un preventivo. Non a caso in ogni numero anche noi proponiamo la rubrica “Com’è fatto Print”.
Prendiamo la coulisse di figura: apparentemente è un semplice quartino chiuso in testa e al piede con una stampa a caldo e un fregio stampato anch’esso a caldo e applicato al centro dell’apertura sul davanti. Ma è proprio quel fregio che complica le lavorazioni. Prima di tutto la stampa a caldo borda il fregio, inoltre le ghirlande del motivo devono cadere esattamente al taglio e il fronte deve essere perfettamente a registro con il retro. Per far questo, il fregio è stato concepito come un quartino, stampato a caldo con un’abbondanza tale che quando è stato fustellato si è ottenuto il bordo oro uniforme e infine la coulisse aveva la stessa abbondanza sul lato da aprire in modo che si potesse incassare il quartino del fregio sulla coulisse, incollare e refilare. Questo è solo un esempio di come un risultato apparentemente semplice in realtà nasconda insidie tecniche.

Colori e spessori

Proviamo ora ad applicare il metodo partendo da colori e tecniche di stampa che vanno considerati più o meno insieme, procedendo per esclusione: si può partire chiedendoci se ci sono tinte piatte. Cerchiamo grafismi pieni non retinati che possano darci una risposta, come fondini o risguardi stampati a 1 colore. Se li troviamo, quali siano i colori speciali usati ce lo dice solo il confronto con il pantonario coated o uncoated a seconda che la carta sia lucida o opaca. Certo potrebbe essere verniciata e la resa leggermente alterata, ma non stiamo facendo una copia anastatica… In ogni caso, non fermiamoci alle apparenze: la tinta piatta potrebbe essere stata usata non per forza da sola, ma come rinforzo per esempio nelle immagini. Ora, a meno che lo stampato non sia un volume d’arte, di fotografia o di particolare pregio, potremmo quasi certamente escluderlo, ma se ci sono foto particolarmente vivide, bianchi e neri molto definiti e neutri, potrebbe valer la pena ricorrere al lentino e cercare tracce di un’eventuale esacromia (verde e arancione oltre alla quadricromia) o di neri o di pantoni grey di rinforzo. Cerchiamo nei punti in cui il registro è più difficile da tenere come i bordi, i testi negativi, i filetti, i testi. Ma i pantoni potrebbero essere stati usati anche da soli, per esempio in stampati più semplici, ma d’effetto come biglietti da visita, inviti, flyer, oppure potrebbe non esserci nemmeno stampa in senso stretto: non è detto infatti che si debba usare solo l’inchiostro, in offset o digitale che sia, ma si può anche “stampare” con i nastri a caldo, l’impressione in embossing o debossing o la vernice, o ancora serigrafare. In questi casi, in particolare potrebbe non essere così facile destreggiarsi tra le diverse tecniche perché molto dipende da come vengono utilizzate, su quali supporti e per quali tipi di stampato. Pensiamo alle possibilità offerte dalle nobilitazioni digitali. L’embossing si può ottenere anche in digitale usando polimeri ad alto spessore che danno lo stesso effetto dello sbalzo: a tradire, per così dire, la lavorazione digitale sarà la planarità della carta che non risulta alterata dal cliché, così come per i foil metallici, cangianti o pastello si avranno spessori positivi, a volte anche importanti, e non negativi come per la stampa a caldo, che richiede comunque un minimo di pressione; inoltre al lentino non si vedranno nemmeno tracce di strappo del nastro. Anzi chi ricorre alle nobilitazioni digitali ricerca in genere proprio l’alto spessore, oltre a sceglierle spesso per convenienza in base alla tiratura. 

Quale tecnica?

Al di là delle nobilitazioni, le diverse tecniche di stampa come le distinguiamo? Ancora una volta si tratta di andare alla ricerca di indizi significativi. E la carta è uno di questi. Se il nostro stampato, per esempio un volantino, un catalogo, ma anche un libro, usa una carta non eccessivamente grammata (in roto normalmente non si va oltre i 130 gr) e con segni di cannettature coniche in testa o al piede, potremmo essere quasi certi che è stato stampato in roto. La conferma ce la darà il tipo di stampato: se si presume che ne possano essere state tirate molte copie, è quasi una certezza; in più la roto lascia segni inequivocabili: la carta è sempre un po’ più croccante rispetto alla piana perché è passata nel forno di asciugatura; il registro per quanto accurato non sarà mai perfetto e soprattutto la segnatura avrà sempre qualche piccola grinza, di solito in testa, perché la piega avviene ad alta velocità in macchina e, per quanto si pratichino piccoli fori o si usi inumidire la carta per agevolarla, non si avrà mai una piega “pulita” come quella che si ottiene piegando fuori linea un foglio di piana. In più, salvo rare eccezioni, le roto non hanno un gruppo verniciatore, quindi non ci saranno finiture particolari o a spot su porzioni di pagina e potrebbe esserci qualche alone traslucido dovuto alla soluzione di bagnatura o all’asciugatura non uniforme. Altri indizi inequivocabili sono la confezione filo colla che tiene insieme le pagine dello stampato e i fori degli aghi al piede della segnatura, se non refilata. Ovviamente ci troveremmo davanti a un volantino, per esempio, che di per sé ha alta distribuzione e di conseguenza tiratura e questo riporta inevitabilmente alla rotativa, ma gli aghi ci sono anche nei quotidiani. 
Il digitale invece, ormai assolutamente affermato, concorrenziale e usato per stampati come libri, anche di pregio, a seconda della generazione delle macchine lascia un effetto un po’ cerato sulle zone inchiostrate, percettibile soprattutto sulle immagini o sui fondi, ma anche sui testi. Questo è dovuto al fatto che l’inchiostro, indipendentemente dal tipo di tecnologia digitale, non ha le stesse fasi di penetrazione ed evaporazione dell’inchiostro offset, che si lega chimicamente alla carta, bensì polimerizza. L’aspetto cerato della stampa con lo sviluppo tecnologico tende a scomparire. In generale però la stampa digitale ha un aspetto per così dire più asettico, forse perché si tende a usare carte molto bianche; per definizione non può avere capperi di stampa, buchi, battute, asciutti, così come fuori registro; inoltre il più delle volte il retino sarà ad alta frequenza e non ci sarà la classica rosetta dell’offset.

Quale supporto?

Molto più complessa è l’individuazione del supporto: ovviamente quando non si tratta di carta il discorso si fa più facile perché materiali plastici, tele e cartoncini sono in numero più ridotto e con un minimo di ricerca si riesce a individuare cosa è stato usato. Con la carta è più complesso: a meno di carte speciali, con lavorazioni o trattamenti particolari, come colori in pasta e goffrature, filigrane o vergature, al più si potrà indovinare il tipo di finitura. Pensiamo alle patinate: lucido e opaco sono facili da individuare, ma poi ci sono le semilucide, le matte e le satinate. Questo quanto meno allo stato grezzo, ma spesso si altera questa finitura in stampa o subito dopo per proteggere, nobilitare o preparare il supporto ad altre lavorazioni. Le combinazioni tra carta e vernici di macchina e/o vernici di nobilitazione fuori linea sono davvero innumerevoli e solo osservando lo stampato è arduo capire quale carta, intesa come cartiera e tipo, sia stata usata e distinguere, per esempio, una patinata lucida da un’altra, a meno che non cambi il punto di bianco in modo sensibile, soprattutto per le carte da edizione generiche. In questi casi la cosa migliore è sottoporre il campione a un esperto di carta o chiedere aiuto al referente di una delle maggiori cartiere. La grammatura invece si può individuare facilmente con una bilancia per carta così come la mano misurando lo spessore di un foglio con un micrometro o uno spessimetro digitale.

Legatura e tagli

Veniamo ora alla legatoria. È forse questo l’aspetto cui prestare più attenzione soprattutto in stampati complessi, ma non solo, anche perché, come abbiamo visto sopra, a volte nell’apparente semplicità si nascondono dettagli da tenere in considerazione e che fanno la differenza. Anche una semplice scheda, un biglietto da vista o un invito potrebbe non esser stato solo tagliato sui 4 lati. Potrebbe essere un po’ un caso limite perché non c’è motivo di fustellare quando si può andare in taglierina, che costa decisamente meno. Però se i tagli richiesti non sono dritti e gli angoli retti o soltanto si aprono finestre, allora la fustella è d’obbligo. L’indizio da cercare sono le tacche di tenuta che la fustellatrice richiede per non perdere il pezzo in macchina. Esistono fustellatrici speciali che non richiedono i punti di tenuta come quelle usate per le carte da gioco, ma si tratta di casi molto particolari. Dove non arriva la fustella, che ha limiti oggettivi di dimensioni minime, arriva il taglio laser che permette di intagliare la carta traforandola quasi come fosse un ricamo. Il vantaggio è la finezza del taglio, lo svantaggio è che si deve accettare un minimo di segno di bruciatura della carta che si nota sul retro del taglio. È questo il segno che dovremmo cercare quando ci imbattiamo in tagli particolarmente fini o arditi. Un esempio davvero estremo sono gli Omoshiroi Blocks (Omoshiroi.jpg) composti da qualche centinaio di foglietti ognuno tagliato con un suo disegno che, una volta rimosso dal blocco, mette a nudo una vera e propria scultura di carta. Un capolavoro tecnico in cui fustelle e tagli laser creano vere e proprie opere d’arte prodotte in serie.
Ma non si deve pensare che prodotti industriali ormai consolidati non siano in realtà il frutto di operazioni e lavorazioni complesse. Basta un giro in legatoria o su Youtube per scoprire quanti passaggi trasformano una risma di carta stampata in un semplice volume brossurato. La legatoria è ormai un concentrato di tecnologia efficiente che ha velocizzato ogni fase, grazie anche alla spinta della stampa digitale che ha reso davvero conveniente anche la copia unica. Partiamo dalla legatura più facile, la semplice accavallatura di fogli piegati che diventa punto metallico nel momento in cui le segnature accavallate sono tenute insieme da un filo. Vale la pena analizzare questi tipi di stampato perché i punti potrebbero essere non solo 2 come di solito, oppure potrebbero essere non solo in piega ma anche sul piatto e il filo potrebbe essere colorato. Il punto metallico poi ha la criticità del limite della grammatura della carta e del numero delle pagine. Analizzare uno stampato di questo tipo consente anche di valutare come si comporta la carta quando le pagine sono tante e di quanto lo spessore della carta influenza il cosiddetto “creep”, ovvero lo spostamento delle pagine man mano che si procede verso il centro. Tenere conto di questo significa, tra l’altro, evitare di trovarsi con margini che cambiano pagina dopo pagina o grafismi che sono pericolosamente vicini al taglio.

Orientarsi con le brossure invece è facile. Se c’è il filo che tiene le segnature, allora è cucito filo refe, altrimenti è una fresata tradizionale (nella figura, una brossura fresata di un manga che si legge al contrario). Non è detto che un volume cartonato è per forza cucito e viceversa. Il filo refe è più costoso, ed è possibile dare comunque prestigio al volume facendo un cartonato e liberando il budget della cucitura per la nobilitazione della coperta. È quello che accade normalmente con l’editoria libraria. Il filo si vede aprendo le pagine in centro o controllando se in dorso si vede la piega della segnatura, oppure in dorso, affogato nella colla, nella legatura con incollatura al vivo e dorso a vista. Con i cartonati la questione si complica: sicuramente un cartonato classico ha una copertina composta dal corpino del dorso e i due quadranti in cartone che sono rivestiti e rimboccati di carta, pelle o tela di legatoria, nella quale viene incassato il volume che è incollato con i risguardi. Nei volumi più di pregio i risguardi sono due quartini di carta diversa e più pesante rispetto a quella usata per l’interno, ma se ne può fare a meno, incollando direttamente la prima e l’ultima pagina ai quadranti. Questa versione tradizionale può essere complicata a piacere aggiungendo parti (si può arrivare anche a 13 tra sovraccoperta, capitelli, segnalibri, cofanetto, imbottitura, solo per citarne alcune) o togliendone, come nella legatura open spine cucita filo refe senza copertina cartonata e con filo a vista. Un’interessante variazione invece si ottiene tagliando al vivo i quadranti e mettendo a nudo i cartoni, o cambiando la loro grammatura e trasformandola in olandese con quadranti morbidi in cartoncino da 250 a 400 gr; in bodoniana con due quadranti refilati al vivo e applicati alla copertina del volume brossurato; o ancora in giapponese, raffinata legatura eseguita manualmente passando un filo da un foro all’altro e avvolgendo il dorso.